di Pippo Russo
Se Matteo Renzi riuscirà ad essere davvero una novità, la novità, nell’ammuffita politica italiana e a fare, presto, alcune riforme essenziali che da tempo il Paese attende, non ce n’è più per nessuno e come uno tsunami spazzerà via il ciarpame accumulato nei palazzi del potere, non solo politico. Tutto può accadere, certo, anche che il giovane neo Presidente del Consiglio fallisca o che si riveli un bluff, ma fino ad allora possiamo affermare ciò che ancora qualcuno non ha capito o finge di non aver capito e cioè che Renzi, pur con alcuni limiti e contraddizioni, rappresenta una rottura, non patinata e ingannatrice come quella berlusconiana, con le logiche asfissianti delle segreterie e con i logori e logoranti riti dei partiti.
Renzi non parla alle nomenclature ma direttamente alla gente e sa usare il giusto linguaggio, lo aiuta la sua esperienza di amministratore. Sa che deve rivoluzionare il rapporto tra cittadino e istituzioni, tra cittadino e Pubblica Amministrazione. Sa che famiglie e imprese sono allo stremo e che se barerà se la prenderanno pesantemente con lui, senza indulgenza alcuna. Il Pd, quello rintanato nelle dinamiche tutte interne agli apparati e alle oligarchie, non nasconde la sua freddezza nei confronti di un leader che apertamente mostra insofferenza per i giochi di corrente e di autoconservazione, non lo ha pienamente riconosciuto piuttosto lo subisce, quasi come un corpo estraneo, e sbaglia. Sbaglia gravemente perché rischia di perdere forse l’ultimo treno per un difficile recupero della credibilità della politica, dei partiti e delle istituzioni seriamente compromessa nell’immaginario collettivo. L’estrema occasione offerta dallo stesso popolo del Partito Democratico alle scorse primarie del 8 dicembre che hanno incoronato il sindaco di Firenze segretario nazionale. Ci sono invece due personaggi che hanno compreso perfettamente che con Renzi è giunta la loro fine politica, sempre che dalle parole si passi ai fatti e in fretta: Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Berlusconi sa di trovarsi per la prima volta dinanzi a un leader del centrosinistra cui non può rivolgere l’accusa di essere un comunista o un democristiano. Per la semplice ragione che il sindaco di Firenze non ha mai militato, anche per il dato anagrafico, nel Pci o nella Dc. Berlusconi sa che è arrivato sulla scena chi potrà sconfiggerlo sul piano politico senza ricorrere alla leva giudiziaria. Lo sa e, bisogna ammetterlo, sta reagendo in modo composto all’inesorabile declino personale e della sua Forza Italia, accontentandosi di tutelare, per quanto possibile, gli interessi aziendali. L’altro personaggio è Beppe Grillo, che ha intuito che l’humus da cui ha tratto sostanza l’antipolitica, e quindi il suo movimento, con Renzi andrà sempre più esaurendosi, decretando la cessazione di un modo di intendere e di praticare la politica basato solo sulla protesta e sulle invettive. Grillo vede come fumo negli occhi chiunque si sgancia dalle regole non scritte del politichese puntando sulle cose concrete per dare risposte ai bisogni della gente e, al contrario di Berlusconi, sta reagendo scompostamente e in modo isterico. La verità è che il movimento pentastellato di Grillo nasce col peccato originale di non avere voluto accettare il mandato ricevuto dagli elettori, governare. Sono i cittadini a decidere chi deve governare e chi deve garantire un’opposizione democratica. Quando un partito, un movimento, ottiene milioni di voti vuol dire che è chiamato ad assumersi responsabilità di governo. Grillo se n’è guardato bene dal farlo, tradendo in tal modo la volontà degli elettori, preferendo il rassicurante e redditizio ruolo del fustigatore urlante.
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